El Camp dal Sorz
di Alberto Sighele
Sulla base di una novelletta in versi di Don Zanolli ed un commento di Ciro Pizzini sulla pubblicazione “El Paes de Castellam”, per la Compagnia Fonetica, con musiche al piano di Renzo Vigagni e quadri di pittura fonetica.
La scena complessivamente necessita di un seggiolone, un attaccapanni (per il cappello), un tavolo sufficientemente grande per poter avere lei, gatta inginocchiata in mezzo con candela in mano, ed immaginari piatti e pietanze attorno. Travestimento con copricapo per lui come topo. Per lei, cappello come Ciro Pizzini il commentatore, calzamaglia nera come gatta. Lei sarà anche il Conte. Lui sarà anche il contadino.
lui: testo normale e corsivo, come un giano bifronte, che si spezza sempre nel secondo, che commenta.
Lei: testo maiuscolo, in piedi dietro a lui. Si vede quando lui si piega da parte per fare il commento. Lei lo trattiene piegato giù e da parte con la mano, prendendosi lo schermo visivo del pubblico.
G’ho da contarve ancoi, amici cari,
zacché g’ho el bem d’esser anc mi tra voi,
en fattarel, ma propri de quei rari,
succes en te sta val, anzi tra noi,
gho da contarve ancoi
en fattarel success tra noi,
amizi cari
en fattarel
ma propri de quei rari
DEVO RACCONTARVI OGGI
UN AVVENIMENTO TRA QUESTI POGGI
AMICI CARI
UN AVVENIMENTO DI QUELLI RARI
no miga ancoi o geri o l’am passà
ma mettente che’l sia sett’otto età.
Savé che via ‘n Castel anticament
ghe steva drent i Conti de Lodrom,
via ‘n Castel anticament
i Conti de Lodrom ghe steva drent .
Quando sentim che i la portà rent
noi pensem che’l sia en ladro en lazarom,
drent, per noi poreti, vol dir presom!
Drent, chi, vol dir: che bel, ‘ntel Castel!
LA PRIGIONE PER IL LADRONE: LORO.
LA PENSIONE PER IL LODRONE: D’ORO.
O CHE BELLO NEL MIO CASTELLO!
No miga che i ghe stes continuament
che i ghe ne aveva tante situaziom
( i conti de Lodrom) da comandar, e da passar i dì,
ma qualche volta i se fermeva anc chi.
No come ti che te sei en por slandrom,
che se te vai, te vai en giro a strozegom,
te sei ligà al laoro, al camp, al to taolom.
Zerto, ti no te sei en Conte de Lodrom!
Averé za senti pu de na volta
da qualche veccio dalla barba bianca
che qualndo ‘l parla attent ognum el scolta,
che l’è peccà che i Conti ades i ne manca!
Sarà, sarà, sarà, ma mi no so, mi g’ho
quest’altra idea che al veciot, sia la sposa
che ghe manca e ‘n bicerot e no en padrom ,
per quanto bom el fusse ‘l nos Lodrom!
ALLA BARBA BIANCA MANCA
LA SAGGEZZA
DI ACCETTAR SE STESSA
ANCHE OLTRE LA GIOVINEZZA
Perché ‘n do gh’è persone de quel taj,
se pol dirghe paesi fortunai.
A mi ‘l me dis el taj del prà
che mi son fortunà: el me paradìs
l’è na polenta, na grosta de formai.
PAESI FORTUNATI DOVE I NATI
SOPRA RESTAN SOPRA
E LE AUTORITA’ SONO SEMPRE LA’
I gh’aveva i Lodroni ‘n si bel cor
che’l so divertiment l’era sol quel
de far a quest e a quel qualche favor:
basteva avvicinarse al so Castel…
Ma dai, erei propri cosi boni
sti ladroni? Saria propri bel
che i me sguesse anca a mi el so capel!
Ma dai, ma dai, saresem propri fortunai!
Ché, benché Conti, l’era zent si bona
che podeva parlarghe ogni persona!
Te disi ben “Conti”che de conti
i era boni: quant robar, quant regalar.
De drio e davanti, che vede tut
gh’é sol el Sioredio e i Santi!
Quant ben ai nossi vecci i gh’abbia usà
no ne l’ha lassà scrit a noi la storia
ma ampò l’è cert che della so bontà
gh’avem e gh’averem sempre memoria.
Va bem la storia e la va studiada,
ma anche spess come la s’è rebaltada!
e se pò fuss la pora zent, en de ‘n moment
l’interpretaziom saria n’altra zicoria!
E a la memoria dei poreti ghe pensa i preti?
Perché ‘l fondo che ades gode ‘l Curat
l’è sta ‘n Conte Lodrom che ‘l ghe l’ha dat.
POTERE SECOLARE A BRACCETTO
COL POTERE ECCLESIALE
ED IL POPOLO RESTA SRETTO, STRETTO,
QUASI STRITOLATO- NIENTE MALE
Eco mi son don Zanolli, son chi che sono
la serenata al Conte, ma voi conté tut
en ten altro tono, en po pù spavaldo!
Ma mi e voi sem polli e tut l’è zaldo!
E pò ne a Villa e sentirè per tut
Che è stà fondà dai Conti capitai
perchè d’ogni am abbia a servir el frut
da sostentar i poveri e i malai.
Putei, l’è propri vera che i Lodrom
ai posteri i voleva farghe bella impression!
Rockafeller americani, cari i me putei!
come lori, prima de lori, i se feva bei!
PUBBLICITA’ PUBBLICITA’
UNO DUE TRE QUATTRO SECOLI FA’
Frutti dei quai partecipem anc noi,
benché a ciaparne s’ha da far coi soi.
E’ fondo dei Lodroni anc la Cappella,
fondo che frutta ogn’am na summa grossa,
perchè el Degam comodament con quella
cantori e preti mantegnir el possa,
che la serva d’agiut, semai, la Ciesa,
no la g’ha forza de portar la spesa.
No ve fé maravea se sul pivial,
sul la pianeta, e squasi ‘n tut el rest,
PARAMENTI LITURGICI
vedé ricamà su el stes segnal.
INVESTIMENTI DI IMMAGINE
Savé che l’è quel animal forest?
I ghe dis el cagnot, ma l’è en leom,
arma vera dei Conti de Lodrom.
El me piass sto prete che tol en giro
i Conti, che ‘l conta quel che la zent conta!
Con la panza suta, almen la bocca onta!
Del rider en giro, el tira el filo.
IL LODRONE VORREBBE ESSER LEONE
SE LO METTE SULLO STEMMA NOBILIARE
LO STAMPA SULLA SCHIENA DEL PIVIALE
AL PRETE LA CUI FUNZIONE E’ FINZIONE
CHE A DIO E AI LODRON SIA LODE
e sbrodolom!
IL LEONE NON E’ UN CANE!
IL LODRONE E’ IL Più BELLO DEL REAME!
Da quant en suma che i Lodroni ha fat,
se pol conchiuder senza far error
che a sti paesi sempre i ghe n’ha dat,
e che per conseguenza i g’ha bon cor,
e che benissim pol esser succes
el fatto che contarve v’ho promes.
Ma prima, a chi parla, en bicer d’acqua
come al gat bisogna lisciarghe la coa!
Escono lui di là e lei di qua.
Lei rientra con seggiolone in vimini.
Lei seduta con cappello da uomo in testa.
Pomeriggio domenicale, fuori fa freddo, non mi sono prefissato programmi e sono indeciso, l’interesse per scendere a valle oggi non mi lusinga.
Mi adagio sulla poltrona, mi gusto il caldo della casa e lo sguardo della mia gatta che mi scruta soddisfatta. La mia gatta, soddisfatta, perchè intuisce di poter godere della mia presenza per il resto della giornata.
Mi sovviene allora l’impegno con gli amici dell’associazione “Don Zanolli”di abbozzare qualcosa sulla leggenda “El Camp dal Sorz”, tramandata oralmente, tra questi colli, da generazione in generazione nella comunità di Castellano e alla fine tradotto per iscritto nel 1862 da Don Zanolli, prete eclettico che nelle sue poesie, come io nelle mie, ha saputo cogliere profondamente i sentimenti dell’animo umano. A Castellano! Prima, de tut, la rima!
Avevo già letto quest’opera, però superficialmente, ma ora, disteso e con la mente rilassata, assaporo strofa per strofa e senza fretta, chiudo gli occhi, calandomi con la fantasia nelle vicende descritte; divento gatto e topo, ricco e povero, prima e dopo, su e giù per i secoli e le scale del tempo. Per me è piacevole, gli accadimenti storici da sempre mi affascinano ed ora mi diletto, fossi umano o gatto, correndo con il pensiero a ritroso nel tempo, lasciandomi risucchiare da questo piacevole interesse, come un gatto che facesse le fusa. Ma scusa adesso mi faccio un caffè.
Lei esce mentre il piano suona. Rientra vestita in calza maglia nera da gatta.Danza la gatta.
Cosa ho fatto! Ahimé un gatto! Adesso, mi sono versato il caffe addosso, e sono, di sesso, una gatta. La mia gatta. La sua gatta.
L’avvenimento descritto è inquadrabile approssimativamente alla fine del 500 e il protagonista sarebbe Giobatta Pederzini. Un umano, non una gatta! Io sostengo il protagonista fosse un gatto, così nella mia generazione fu tramandatto, o una gata, miagolava convinta una mia antenata.
Per analizzare la leggenda e capire meglio i fatti, noi gatti, mi par giusto considerare l’assetto politico della Provincia , mai chiudere un gatto in un cassetto, già a partire da qualche secolo prima e per questo mi avvalgo delle pubblicazioni fornitemi dalla Associazione Culturale, la cucina, e di un atlante storico , l’istinto, che in altre occasioni mi ha fornito eccellenti spunti meditativi. L’olfatto di un gatto.
Ripercorro quindi la storia del Castello di Castellano, le cui origini vengono datate verso l’anno mille ad opera di qualche signore che cercava salvezza per sé e per il suo patrimonio; nel 1234 il castello appartiene ai signori di Castelnuovo, poi , con alterne vicende, passa a quelli di Castelbarco, ma successivamente nel 1456 la proprietà viene assegnata ai Lodron. Nella mia generazion invece il Castello non passa, resta nella stessa linea genealogica di gatti geniali, dentro e fuori dal porton dei Lodron. Cioè ogni buco bom.
All’epoca del fatto, prigioniero sulla tavola il vero signore il gatto, potrebbe essere stato signore, umano, di Castellano Felice Lodron (morto nel 1584) oppure il suo successore Nicolò Lodron. Per quasi otto secoli, ossia dal 1027 al 1802, all’incirca il territorio dell’attuale Trentino appartenne al Principato Vescovile di Trento, governato per la maggior parte del tempo da religiosi, investiti del potere temporale.
Qualunque fosse l’autorità imperante, laica, religiosa o commistione di entrambe, il potere quasi assoluto del signore non si modificò per molti secoli. Direi la stessa cosa per noi gatti, fatti e misfatti, dai secoli ai secondi tondi. Solo di religione noi siamo di tradizione egizi, senza pregiudizi.
Per il popolo non titolato, topi e topolini, nulle erano le garanzie individuali, quotidiane le sofferenze, la fame, le sopraffazioni, le vessazioni. Deleterie l’ignoranza e la superstizione. Solo le malattie non strettamente connesse con la malnutrizione, mietevano senza distinzione di censo, vittime in ogni ceto sociale e regno e specie animale.
Alessandro Manzoni, manzo che muggiva e miagolava per non farsi sbranare dai padroni, nei suoi Promessi Sposi registra magistralmente la storia di oppressi e oppressori nella quotidianità della vita del XVII secolo.
Ora, poiché la leggenda “El Camp dal Sorz” è collocata all’intorno del 1600, suggerisco al lettore, spettatore, gatto, topo, razza inferiore o superiore, a seconda di dove si parte, e dal punto di vista che si prende, non sorprende!…interessato, di rileggere o leggere il capolavoro del nostro grande scrittore per capire come l’individuo senta titoli nobiliari fosse alla totale mercé del potere.
Questa è appunto l’esistenza quotidiana anche di un contadino di Castellano che dovendo sopravvivere in quel contesto storico, non solo è privo degli strumenti giuridici per ribellarsi, ma nemmeno viene istruito, inconsapevole quindi dei suoi più elementari diritti, a meno che non li trovi scritti,
dentro di sè,
come noi gatti,
nel cuore, nelle unghie e nei baffi,
e costretto pertanto a far appello alla sola benevolenza del potente e alla provvidenza divina: inmsomma una vita disperata e disperante!
Come tante.
Oppure felice nonostante,
tutto, dico io gatto, gatta,
gata, questa è la frittata,
tutta, della felicità.
Miao,
l’anima nostra lo sa!
Miao.
E’ con tale visione nella mente che a mio giudizio occorre immaginare le vicende della leggenda.
E così capite come ogni gatto, sotto ogni tetto, ha sempre lisciato il piede al padrone e lo stinco, d’istinto.
Entra lui dalla parte da dove era uscito e racconta:
Gh’era donca ‘n Lodrom drent en Castel,
che ‘l gh’eva en gat ammaestrà ‘n maniera,
che se ‘l neva dal dì for dal portel,
el torneva sicur cò l’era sera,
perché l’era avvezzà, senza che ‘l sgnaola,
a tegnir la candela sulla taola.
Um, che no gh’abbia gnente da pensar,
che senza tante struscie, cò ‘l ne vol,
g’ha subit pront el bever e ‘l magnar,
e tut quant quel che ‘mmaginarse ‘l pol,
nol ghe darìa quel gat per en gat d’oro,
che ‘l crederìa de perder en tesoro.
Deffatti el gh’eva ‘l Conte n’ambiziom
d’averghe en gat sì brao, sì virtuos,
l’era come ‘n zojel per el patrom.
Lei come una gatta mima tutto in giro per la scena.
E guai! Se qualchedum gh’aes fat qualcos!
El gh’eva da magnar finché ‘l voleva,
e cot e cru, sinché ‘n la panza steva.
Carne, salzize, luganeghe e formai
e nar de corpo mai! l’era così dura!
Zerto ghe saria volest pù de verdura!
Ma a chi useva la visccia col gat, guai
come a toccarghe la guardia del corpo
al Re! I pol esser i pu criminai
ma no sei tocca, serrar la bocca
e taser! Tegnirse endré! Senò el Re..
serrar anche i oci, se se gh’ha pioci
gratar e taser, senò l’è lesa maestà!
Ma chi fora de strada forse son nà.
L’immunità a chi fà robe brute l’è vera,
le gh’era anche allora le robe strove!
Ma ‘l gat no l’era en criminal! le prove
le g’ho: el porteva el lum, na candela,
el sol, dopo na zò, ndò che nol gh’era,
en la sala, el feva na roba bela
e sul schenal del conte gh’era en spegio
viva la trasparenza! L’era ‘n egregio!
E ‘l gat l’era avvezzà, senza ch ‘l sgnaola,
a tegnir la candela sulla taola.
nol ghe darìa quel gat per en gat d’oro,
el Conte,
che ‘l crederìa de perder en tesoro.
Lu che ‘l gh’aveva le ponte
dei dei sempre ben onte
el Conte!
Cò capiteva qualche forestier,
diseva el, ancoi ste chive a cena!
Voj che vedé de nos en candeller,
ché certo goderé na bella scena!
E ‘l forestier per star allegrament
el se senteva zo tut quant content.
Qui lei porta dentro portate
e poi sale, si fa largo tra i piatti
e si ferma in mezzo alla tavola
reggendo un candelliere o un vaso di fiori rossi
con in mezzo una candela…
El gh’eva da magnar finché ‘l voleva,
e cot e cru, sinché ‘n la panza steva.
Carne, salzize, luganeghe e formai
e nar de corpo mai! l’era così dura!
Zerto ghe saria volest pù de verdura!
Drent capiteva en taola a um a um,
pollastri, anedre, dindi, macafam,
ma ‘l gat sempre su drit a farghe lum,
mostrand de gnente affat d’averghe fam:
saverìa dit, che ‘n gat no l’era quel,
se a colpi no l’avess endrizzà ‘l pel.
La braura del gat cossì bel bel
s’ha sparsa for per tut en tel paes,
e ognuno ‘l strangosseva ‘n tel Castel
nar a vardar come quel gat el fes,
perchè ognum tegn che’l gat, en conclusiom,
for che da sorzi, da altro nol sia bom.
Na sera donca ‘n certo Pederzim,
curios anch’el de veder sto portent,
l’ha tolt el so cappel, e ‘l melordin,
e franc senza paura, l’è na drent
dal Sior Conte, mostrandoghe piacer
de veder far el gat da candeller.
Al Sior Conte ‘l g’ha fat en gust che mai
a veder che ‘l va drent, e propri apposta.
Quando che tutti a taola i è sentai,
l’ha volù, che lì arent anch’el se posta,
e deffatti l’ha vist strasecolà
el gat sempre su drit come ‘mpalà.
Siccome pò che ‘l Pederzim l’era
‘n om che saveva bem el conto so,
ché se podeva dirlo na furbera,
Sior Conte, el dis, ma crederessel mo
che la maniera no saves trovar
quella candela al gat de far molar?
Si chiude il sipario.
Si riapre il siaprio:
Lui continua a raccontare.
Lei vestita da gatto, parla come Conte in italiano, mentre lui dice anche la parte del conte in dialetto. Il dialetto del Conte e l’italiano del Conte di lei, gatto, si sovrappongono.
Sior Conte, el dis, ma crederessel mo
che la maniera no savess trovar
quella candela al gat de far molar?
Prova, risponde il Conte, dagli un tozzo di pane.
Prova, el risponde, daghe ‘n toc de pam.
Esibiscili carne oppure vitello!
Esibiseghe carne oppur vedel!
Mettigli davanti una fetta di salame,
metteghe ‘nnanz na fieta de salam,
Ingolosiscilo anche con un uccello,
engolosissel pur anch con ‘n usel…
A tu fai pure, ma no, vedrai
A ti fa pur ma no te vederai
che la candela non la lascia mai
che la candela no ‘l la mola mai.
Senz’altro se fosse di colpirlo con un legno
Sicur se fuss a darghe con en legn
o dargli di colpo uno sberlone
o a pettarghe de colp en scoppellom
so anch’io che la luce non ha più un sostegno
el so anca mi che pu la lum nol tegn,
se ne va sparato come da un cannone
che ‘l va come sbarrà for da ‘ cannom…
Ma senza farci niente, senza toccarlo
ma senza farghe gnent senza toccarlo,
quello che hai detto non saprai mai farlo
quel che t’hai dit no te sei bom de farlo!
El scolta, Sior, per eseguir sto tant,
benché tavam, me ‘l togo mi l’impegno.
Quando ‘l vol, el me avvisa ello soltant,
e quella sera, che en Castel mi vegno,
el vedrà el gat alla presenza soa
lassar la lum e portar via la coa.
Domani sera vieni! Senza sbagliarti,
domam de sera vegn, ma senza fal,
e se di fare questo tanto sarai capace
e se de far sto tant te sarai bom
un bel regalo, prometto di darti
te prometto de darte en bel regal.
Ma un’unica condizione e pace
ma recordete bem la condiziom
senza far male al gatto senza toccarlo
senza far mal al gat senza toccarlo
in nessun modo alcuno minacciarlo
ne gnanc con qualche vers a minazziarlo!
Lei si riprende il cappello
e si siede sul seggiolone in vimini.
El Pederzim allora a so Sioria
l‘ha promess de tornar tut quant content,
e tolt el so capel per voltar via,
l’ha prima fat al Conte en compliment,
e dopo averghe dat la bona not,
drit a so casa l’è tornà de trot.
lui esce.
Lei riprende seduta e poi in piedi come crede,
col cappello sempre in testa:
racconto suggestivo e affascinante nel suo genere. Immagino il narratore che decanta la poesia nei filò delle stalle di Castellano nella seconda metà dell’ottocento, al lume di una lampada a petrolio o a quello di una candela, a grandi e piccoli, a quei tempi non distratti dai moderni mezzi di comunicazione, ma con la mente attenta e fantasiosa nella ricostruzione immaginaria dell’evento, non solo dal punto visivo ma anche olfattivo: non dimentichiamo che la fame è stata da noi una costante fino alla metà del novecento! Immaginate la suggestione creata in persone semplici, però attentissime ai dettagli, nelle stalle coi filò invernali. Ambienti semibui, al caldo umido prodotto dalle vacche e con l’udito perso nel loro lento ruminare. Ho provato anch’io a leggere la strofa e poi a calarmi nell’evento e infine ho visto il gatto entrare e uscire, con la circospezione tipica di quell’animale, attraverso “el portel” . Altro dettaglio interessante, l’uso di termini che si sono poi persi nel tempo, inesorabile destino di lingue e dialetti. E l’abbondanza e la ricca varietà delle portate che venivano messe sulle tavole della nobiltà, insomma un miraggio irragiungibile per i poveri contadini. Il gatto del Conte Lodron era ammaestrato a rimanere indifferente all’ambiente circostante ed impassibile nella posa di tener eretta con le zampe anteriori una candela accesa; ogni contadino di Castellano anelava di poter entrare nel castello ad ammirare in azione quel meravglioso animale che certo non assomigliava a quelli di loro proprietà avvezzi solo alla caccia dei topi.
Rientra lui
El dì dreghe la barba el s’è tajà,
L’ha cazzà en doss el so corpet da spos,
en torno alle calzette el s’è ligà
le so brave do corde color ros,
lei
VEDETE L’IMPORTANZA DELL’APPARENZA
L’ATTENZIONE AL PARTICOLARE
LA COSCIENZA DELLA CIRCOSTANZA, SENZA
LA QUALE SVANISCE ANCHE IL MANGIARE
perchè ‘l spereva dopo quella scena,
che ‘l Conte ‘l lo envides sicur a cena.
Cossita donca all’ora stabilìa
col so segret el s’è portà ‘n Castel.
E ‘ntant che en compliment a so Siorìa
el feva colla bocca e col cappel.
El conte el ziga e ziga tutti quanti:
Avanti, Pederzim, avanti, avanti!
E lo mena de drent a taola drit,
en dove gh’era anche per lu ‘l so piat.
E sentà che l’è sta zo ‘n tel so sit,
se l’è quella la sera che ‘l ghe fa al gat
la candela molar, el ghe domanda.
E lu ‘l risponde: quando che ‘l comanda!
MA L’ALTRA DOMANDA PRECISA E’: LA SFIDA
E’ TRA IL CONTADINO E IL CONTE,
AL PRIMO LA FAME AL SECONDO LA FAMA?
CHI E’ IL GATTO E CHI E’ IL TOPO, SI SAPRA’ DOPO.
O L’EROE E’, NE’ L’UNO, NE’ IL DUE, MA IL TRE?
IL TRUCCO DOV’E? QUI GATTA CI COVA.
MA CHI CI HA MESSO LE UOVA?
E sentà che l’è sta zo ‘n tel so sit,
se l’è quella la sera che ‘l ghe fa al gat
la candela molar, el Conte domanda.
E lu ‘l risponde: quando che ‘l comanda!
qui lei lascia il cappello e diventa gatta e usando lo scalino della schiena del contadino piegata nel profondo inchino al Conte, sale sulla tavola a tenere la candela
Desfizzente ‘n poc for prima la panza,
el dis el Conte, e quando ‘n taola vegn
el bel cappom per ultima piattanza,
allora tocca a ti: quest sarà el segn.
Entant el gat el feva el so mister
istes come ‘l fus en candeller.
Tant da magnar en taola i ha portà drent,
che l’ha dovest molar mez el corpet:
Quando che pò alle tante finalment
a forza de magnar è stà ‘l piat net,
e che l’ha vist vegnir en bel cappom,
Quando che pò alle tante finalment
a forza de magnar è stà ‘l piat net,
e che l’ha vist vegnir en bel cappom
CHI L’HA MAI VISTO CHE SI ROMPA IL DISCO
Quando che pò alle tante finalment
a forza de magnar è stà ‘l piat net,
e che l’ha vist vegnir en bel cappom
PIATTO NETTO, DISCO ROTTO
IL BEL CAPPONE E ADESSO?
e che l’ha vist vegnir en bel cappom
presto mola alla manega el bottom.
En sorz che allor s’ha vist en libertà,
for ruz dal bus e for per la tovaja;
presto mola alla manega ‘l bottom.
En sorz, che allor s’ha vist en libertà,
for ruz dal bus e for per la tovaja
El gat el mola tut coi denti fora a manaja
col pel su drit dala coa ala boca
-varda cosa ancor veder me toca-
come en lamp en tel ziel
drio alla coa, al cul, al col del sorzatel,
zigzagando tra piati e pietanza,
desmentegando de g’averghe za piena la panza,
come en lamp en tel ziel
col pel su drit: l’è el me dirit! l’è ‘l me dirit!
drio a coa, cul, col del sorzatel
e ‘nanzi che ‘l sorz el se la mocca
ecco lì el gat col so sorzat en bocca!
A VOI DECIDERE SE IL CONTADINO
HA SCARPE GROSSE E CERVELLO FINO
Che senza ‘l gat che gnanca baf el diga
de trovar la maniera l’è sta bom
che ‘l petta la candela a svoltolom.
Lei vestita da gatta mima il conte e poi si metterà
a parlare come Conte
Nasce en gran taranai, e l’ Conte el prim,
con tut el fià, che ‘n gola el gh’eva drent,
el porta ai sette cieli el Pederzim,
come l’om el pù furbo, el pù sapient,
come quell’ om che per sto fatto sol
el saria degn de na madaja al col.
L’ha fat portar de bozze ancor na stiva,
che tutti i beva ancor, che tutti i ziga:
Evviva el Pederzim! Evviva, evviva!
che senza ‘l gat che gnanca baf el diga
de trovar la maniera l’è sta bom
che ‘l petta la candela a svoltolom.
Sicur come ‘l taj del me sarlat,
dové saver che ‘l gat
no l’era en gat dasem, l’era na gata
la fam aihmè l’era la spiegaziom
no l’obbedienza seca al so padrom
la fam dei so gatini, na snidiada
nascosta chissà dove lontan dalla taolada
éla dal conte carne la ciapava gnanca pam
ma i so pori gatini capime i era alla fam
così evviva ‘l Pederzim che tutti i ziga,
ma anch’ala gata diseghe evviva evviva!
Anch’éla l’era na zima, propri na zima,
pu che na dama, na diva divina!
Podresem dir rivoluzionaria:
per i so fioleti l’ha butà tut per aria!
Ma adess tornente ai omeni
a darghe lustro a lori
-così capì perché comanda i siori-
senò i fa fulmini contro le femine:
Contro la fam ghe sol le semine
e chi ghe sta drio. E se propri te voi
anche el sioredio che, forse, ancoi
i ammete, l’era na dea, che bela idea!
Come en Egito l’era na gata.
No così bel a ‘n sorz o a ‘n cristiam…
Ades tiro endrio la zata,
torno al Zanolli, el prete che per prim
l’ha scrit sta storia de sto contadim,
o i me zonca la mam, no sol la lengua,
prima l’ho scrit, dopo l’ho dit.
Lei
Donca ades, Pederzim, la bona sera
Caro Pederzini, buona sera
ammiro stupefat el vos talent
ammiro stupefatto il vostro talento
nè averìa mai credù che ‘n tal furbera
devo ammettere che uno più furbo c’era
ghaves da aver al me Castel arent
e non lontano, al mio Castello accanto!
Entant ste bom, saverò pò domam
darve del vos enzegn l a bona mam
state tranquillo, vedrete domani
il mio grazie vi riempirà le mani.
Lei esce
Descriverve el so godìo mi no pos
a sentirse parlar en modo tal
arent che l’era piem en fim al gos
e che l’aveva trincà bem e no mal.
Allegro l’è vegnù for dal Castel
che appena appena el steva ‘n te la pel.
La not enveze de poder dormir
no l’ha podest gnanc occio al som serrar,
che ghe pareva sempre de sentir
el Conte che ‘l vegnis a desmissiar
per regalarghe el dom che ‘l g’ ha promes,
pensand cossa ‘l fus mai che ‘l ghe dones.
A colpi el se ‘nsogneva che ‘l ghe des
na bella borsa e zo qualche zecchim;
a colpi ghe pareva che ‘l lo fes
vestir de nof de panno a lustrofim,
E ‘l sarìa stà pù che content, se a macca
l’aves ciappà na pegora o na vacca.
Lei rientra e sempre vestita come gatta,
mima quanto vien detto del Conte.
Ma no, el dì dopo ‘l Conte ‘l l’ha ciamà
e per mostrase larg e generos,
certo de pù de quel che ‘l se fus pensà,
el g’ha dat en regal el camp a Dos,
a tutti quanti noto, che l’è quel
che gh’è posta lì a sera del Castel.
El camp a Dos, d’allora ‘n pò, l’è stà
sempre dei Pederzini che i lo tegn
siccome ‘n monument della bontà
del Conte e dei so vecci dell’inzegn,
e perchè la memoria pù no mora,
el camp dal Sorz i ghe lo dis ancora.
Lode al Conte Lodrom, e lode a quei,
che generosi impiega i so tesori
a premiar la virtù dei so fradei,
sibbem che no i g’ha ‘n titol come lori;
che i crede come l’Conte e con resom,
d’esser de carne e pel come ogn’altro om….
che i crede ‘n fin dei conti e con resom
d’esser de carne e pel come ogn’altro om…
Che i crede, e mi vel canto, e con resom
d’esser de carne e pel come ogn’altro om.
anche el nos gat el crede d’esser na gata
che per sfamar so fioi la movest la zata
e perché questa storia sia ben finìa
pensé la vossa gata, fata, no na stria
lei
O MEGLIO CHE LA FEMMINA SA COME
LA STREGA PIEGA IL MALE IN BENE
PRIMA DA SOLA E POI ASSIEME
BASTA IL CUORE ED IL CERVELLO APERTO
SENZA PAURA SUSSURRA SIGHELE ALBERTO
e quel giorno, il Conte Lodrom,
non è più un ladro, l’è il più bom!