Tempo ordinario
(I)
Al mattino
si condensa la speranza
come rugiada.
I sogni sono freschi
e i prati vergini.
La luce si fa spazio nel tempo,
lentamente
e le gazzelle escono
nelle steppe asfaltate
ancora incerte, ma bellissime
e già pronte per la caccia
o la fuga.
Questo è anche il momento
per dire le cose migliori,
se ci ricordiamo come si fa.
Al mattino, perfino Aleppo-
-per un istante brevissimo,
polveroso- pensa ad un futuro
al di là delle rovine
delle case e degli ospedali,
degli uomini, dei bambini e degli déi
morti insanguinati.
(II)
A mezzogiorno
il sole cade a picco
e forse la calura dà alla testa
non c’è pausa, né cibo né acqua
da bere, e la sabbia del deserto
può tagliarci la gola.
A Mosul
siamo alla resa dei conti,
siamo pronti a rispondere
alla chiamata delle armi,
a diventare tutti santi,
a morire
senza pane tra i denti.
Il sole picchia duro.
Non c’è un’ombra, un riparo
presso cui sostare, per gustare un attimo
di vita fugace.
E credere, cosa credere, come credere
non ha più alcuna importanza:
sarà la nostra penitenza
quella di essere scudi umani
all’inumano.
Ma qual è la colpa?
(III)
Al porto di Sirte
scende la sera,
e in un giorno normale
si potrebbero vedere
le luci delle lampare
galleggiare lì, nel mare,
serenamente.
Ma questo tempo non è ordinario,
e qui batte una bandiera
più nera di quella dei corsari.
Oggi si vedono solo vecchi pescherecci
che prendono il largo
nella notte
e che trasportano carne da macello
verso l’ignoto,
forse verso la morte.
Giacomo Paternò