mi chiamo Davide di Giacomo Paternò

 

Mi chiamo Davide (ma non lo sapevo!)

 

Mi chiamo Davide. Una volta
un amico mi disse: tu puoi
essere re, nella tua vita futura.

Poi mi trovai a combattere
nella terra dei Giganti.
Come un incubo fantasy,
ecco spuntarmi davanti
mostri di varia natura:
Colossi bancari,
Draghi
Stregoni finanziari
che fanno bolle di sapone
speculative,
uomini senza terra
-multinazionali-,
buffoni volanti
e ciarlatani colorati
che invadono le corti
televisive.

Contro tutti questi
io possiedo solo
la mia fede in Dio,
e tanti dardi di rabbia.

Il futuro è un’ipotesi a cui
non posso nemmeno pensare.
Devo solo raggiungere
un orizzonte a tempo
determinato, o se va bene,
a tutele crescenti.

Lascio ad altri il conflitto,
la speranza concreta di vincere.

 

 

 

 

Mi chiamo Davide (e qui lo sapevo…)

 

Io mi aggrappo al mio nome,
mi limito a nascere
e a prendere la vita
così come viene.

Attendo con ansia
l’unzione e la luce,
la casa, il pascolo, il mondo
e il suo significato.

Mi resta il mio,
che è quello di essere amato.
Mi chiamo Davide, e forse da grande
suonerò arpa e cetra,
parlerò con Dio
o farò politica.

O magari tutt’e tre…

Rovereto,
30/12/2015

la seta l’oro il mare di Giacomo Paternò

 

La seta, l’oro e il mare

(I)
Ad un mercante
da mille e una notte
chiedo la seta, l’oro e il mare.

Mi dice: “non le ho, ma ti regalo la luna”
e di essa, non so cosa fare: aspetto che si svuoti
e che io diventi sabbia
e tu, possa bagnarmi
salendo.

Non trovo il mio senno
disperso nella nebbia
ma cerco sulle rive
una disperata fortuna.
Riesco a scorgerla
nel tortuoso torrente
ma ecco che fugge via,
via con la corrente.

Torno a casa
ed già sabato;
oggi non riposo,
avrei una festa
ma non ho ancora la stoffa
per un vestito nuovo
così, oltre al danno,
arriverà la beffa.

Non mi rimane
che vegliare, ed attendere
che ritorni piena
per poi restituirla
a quel ladro d’oriente:
io non chiedo sogni in affitto
ma solo la chiave del suo scrigno
per non restare matto.

(II)
Qual è il prezzo di tutto l’oro che porti
e che scommetti sicura
nei tuoi occhi di esca?
Tu conosci la mia fame, il mio desiderio di pane
in mezzo a questo campo di grano
che aspetta solo la mietitura,
che io passi la mano
prima che venga la sera.
Verrò quindi a raccogliere l’oro fluente
che scende fino a valle
e poi t’incontrerò
all’altezza dei fianchi, e lì
perderai il fiato.

Non guardarmi così. Non mi sorridere,
perché la bussola in burrasca
a volte si perde, e se un fulmine
improvvisamente ti cade vicino,
ti abbaglia potente.
Non essere impertinente
perché la tua curiosità
si è appena distratta
alle soglie del mio cuore.
Ma soprattutto, non ti fermare
se vorrai baciarmi,
non costringermi ad inseguirti.

(III)
Un primo sole
cade su questo lungomare.
E oggi sono io, invece
a riversarmi nel vento
e vincere il tempo
cercando profumi remoti,
sguardi di cieli
lontani suoni notturni.
Scendo in spiaggia,
aggiungo sale al sale.
Poi ti ritrovo: ecco la mia mano
attraversare selve rosse di sabbia,
il mio dito intingere
sul miele più dolce.
Io ti vedo, ti stringo
come fa il mare
con le sporgenti rocce del Capo:
è ancora inquieto,
fragoroso
in questi incerti
tramonti di primavera.

 

Prima che venga sera,
io ti saluto, e prometto
che tornerò qui a cercarti
per amarti, come in un sogno,
con i miei occhi chiusi.
In un sogno,
con i miei occhi chiusi.
(IV)

Ma ora è l’ora di dimenticare
il riflesso del sole dentro il mare
e il colore limpido della speranza
che dal fondo risale.
È giunta la sera: faremo un grande falò
di tutta la musica, la filosofia:
sarà forse l’ultima poesia
vissuta con il calore che ne rimane
perché pizzica la salsedine,
incita la mano a scivolare
sullo specchio di acqua e seta,
a tuffarsi in un anfratto di luna,
in un’altra vita.

Ma è il presente che io preferisco,
un’avventura che ancora non conosco
un incontro non ancora avvenuto
cioè quello che in fondo è successo con te.

 

tempo ordinario

Tempo ordinario

(I)
Al mattino
si condensa la speranza
come rugiada.

I sogni sono freschi
e i prati vergini.
La luce si fa spazio nel tempo,
lentamente

e le gazzelle escono
nelle steppe asfaltate
ancora incerte, ma bellissime
e già pronte per la caccia
o la fuga.

Questo è anche il momento
per dire le cose migliori,
se ci ricordiamo come si fa.

Al mattino, perfino Aleppo-
-per un istante brevissimo,
polveroso- pensa ad un futuro
al di là delle rovine
delle case e degli ospedali,
degli uomini, dei bambini e degli déi
morti insanguinati.

(II)
A mezzogiorno
il sole cade a picco
e forse la calura dà alla testa

non c’è pausa, né cibo né acqua
da bere, e la sabbia del deserto
può tagliarci la gola.

A Mosul
siamo alla resa dei conti,
siamo pronti a rispondere
alla chiamata delle armi,
a diventare tutti santi,
a morire
senza pane tra i denti.

Il sole picchia duro.
Non c’è un’ombra, un riparo
presso cui sostare, per gustare un attimo
di vita fugace.

E credere, cosa credere, come credere
non ha più alcuna importanza:
sarà la nostra penitenza
quella di essere scudi umani
all’inumano.

Ma qual è la colpa?

(III)
Al porto di Sirte
scende la sera,
e in un giorno normale
si potrebbero vedere
le luci delle lampare
galleggiare lì, nel mare,
serenamente.

Ma questo tempo non è ordinario,
e qui batte una bandiera
più nera di quella dei corsari.

Oggi si vedono solo vecchi pescherecci
che prendono il largo
nella notte
e che trasportano carne da macello
verso l’ignoto,
forse verso la morte.

 

Giacomo Paternò

Pentecoste

Pentecoste

(I)
Ubi grammatica universalis,
Deus tibi est.

Ma Satana separa, con terribili distici
uomini dagli uomini, lingua contro lingua

e la speranza dei mistici, di amanti e traduttori
è che possiamo riscoprirci tutti Logoi spermatikoi

nel frattempo, improbabili apostoli annunziano
una notizia nuova, senza paura o pigrizia
contro ogni distanza, contro ogni ingiustizia.

Teste calde, dice qualcuno,
come infuocate. O forse,
sono soltanto tutti imbriachi.

Veni Spiritus Creator
ut renoves faciem orbis terrarum.

(II)
Com’è possibile che questi
parlino tutti la nostra lingua?
Sono galilei, eppure
non sento un solo accento che li distingua

siamo parti, medi, elamiti,
abitanti della Mesopotamia
ma oggi non percepiamo più
l’esser stranieri come un’infamia;

veniamo dalla Frigia, dalla Cappadocia,
dal Ponto, e dalla Panfilia:
quale racconto faremo ai fratelli
di questa nuova meraviglia?

Simo egiziani e libici,
forse anche tunisini;
all’origine, la Parola ci accoglie
e noi non siamo più clandestini

siamo romani ed ebrei, arabi e cretesi,
ma siamo tutti egualmente sorpresi

di com’è possibile che questi
parlino tutti la nostra lingua.

Giacomo Paternò

si squarciail velo del Tempio

Si squarcia il Velo del Tempio
si ferma il respiro del mondo
che ritorna al cielo
ma che si fa più nero, che si turba
per il crimine immondo
commesso quaggiù.

Alle tre si uccide un Giusto,
alle quattro lo giustifichiamo
alle cinque ce ne dimentichiamo
alle sei ci accorgiamo invece
che la pena di morte
è più viva che mai.

Alla sera pensiamo al diritto
ma chiediamo perdono, perché sappiamo
quanto sia imminente,
notturno e rapace
il nostro giudizio.
Adesso aspettiamo
che arrivi quell’alba
in cui le donne incontrano l’angelo
che annuncia
ma senza squillo di tromba, perché la nostra sorte
sembra una specie di tunica
su cui un centurione
ha gettato la sorte.

E alla Croce, là sotto
chi pensi che io sia
con queste rime sconnesse?
Anche a Roma scriviamo poesia.
Ma il suo impero
di rabbia e paura
si estenderà ancora
oltre i secoli bui; e l’idea
che per fare giustizia
bisogna uccidere un uomo
arriverà sino a voi.

 

Giacomo Paternò

venerdì santo 2013.

quaresima di G Paternò

Quaresima

 

No so se mi bastano quaranta giorni
in questo mondo deserto
per smaltire la rabbia
di quanto sento e comprendo

mi è passato l’appetito
penso che la febbre salirà
ho bisogno di starmene da solo
fino a quando la giustizia non tornerà

ma l’attesa appare lunga,
perfino per me, figlio di Dio;
alla notizia di Giovanni,
forse ho perso anch’io la testa,
forse ad Erode rovinerò la festa.

Ho letto che io porterò la spada,
credo sia quella della verità
di certo io non arretrerò di un passo,
di certo io non tirerò un sasso.

Anche nel mio battesimo c’è solo acqua,
ferro e fuoco io non farò
ma la mia rivoluzione è pronta,
ed il suo verbo diffonderò

il miracolo è solo una tentazione,
ci vuole pane e coraggio, per la libertà
ma senza la tua partecipazione,

il Regno e tutto il mondo nuovo,
mai e poi mai apparirà.

Io so che non ti basta la mia parola,
so che hai paura dell’utopia,
ma sacrificando la mia vita
senza chiederti nulla in cambio
solo io ti indico la via.

 

Giacomo Paternò

natività di Giacomo Paternò

Natività

 

Flatus vocis creantis.
Già il soffio della Parola
era un Vento che accarezzava
con un brivido di vita
l’oceano.

Il primo fiat
diede alla luce il mondo.
Il secondo-
-quello di una confusa teenager-,
diede al mondo la Luce.

Ora
il Tabernacolo del linguaggio
pone la Sua tenda
in mezzo a questo deserto:
sublime esempio di comunicazione
per i suoi abitanti beduini.

Caro salutis cardo est.
E frigna il mistero
in una palla di carne
di poco più di tre chili;
cresci, Verbum Domini,
diverrai anonimo falegname
ed improbabile messia,
col tuo esercito reietti e pescatori.

Ti ammazzeranno come un ladro,
sarai più solo dell’Inizio,
per la tua assurda pretesa
di essere Re. Eternità umana,
nessuno qui ti ascolta.
Nel vuoto dei nostri cuori,
a chi hai predicato
il tuo amore eversivo?

Qui permane la paura
di chi si è scoperto nudo.

Giacomo Paternò

finché la natura dura

Liturgia delle ore

 

Ci sono sette monaci davanti a me.

Il più anziano apre la fila,
gli altri lo seguono raccolti in silenzio.

Stanno sempre ritti, vestiti di verde
la postura è solenne, con le braccia tese
e con lo sguardo puntano in alto.

Il cielo appare vicino, e la loro preghiera è continua
sotto ogni intemperia, nei giorni di festa ed in quelli di feria.
Nessuno sforzo, nessun salto:

la Natura-finché dura-,
recita la sua messa sul mondo.
E forse intercede per i suoi meschini abitanti
abusivi.

 

Giacomo Paternò

Giacomo Paternò – linguaggi

Linguaggi

(I)
Non sapere il significato
di una parola
spesso non vuol dir nulla,
non ha alcuna importanza.

Il mondo intero
stenta a dire una parola
che abbia senso.
Noi stessi
sembriamo segni sbilenchi
chiusi dentro una logica formale
del tutto irrazionale, in cui le leggi interne
ci sfuggono di continuo.

E non c’è consapevolezza senza conoscenza.
Ma forse non è colpa nostra:
è davvero probabile
che siamo solo inchiostro sparso
casualmente,
vuoti significanti
senza semantica di riferimento
che anche se messi tutti insieme
non possono dir nulla.
Ein Zeichen sind wir, deutunglos,
Schmerzlos sind wir und haben fast
Die Sprache in der Fremde verloren.1

(II)
C’è anche l’ipotesi blasfema
per giustificare
l’assenza di punteggiatura
e l’abbondanza di domande.

È altrettanto probabile
che Chi pensa Sé stesso
per un istante eterno
non abbia pensato affatto,
e abbia scritto una poesia
in un mare divino

viene anche da chiedersi se abbia avuto
il rigurgito del giorno dopo
all’alba di una notte
passata fuori da Sé.
Siamo il diario, il flusso di coscienza
di un Amore represso
da categorie aristoteliche, e non un banale
trattato di grammatica.
Per tutti è inutile
cercare delle regole.

(III)
Adesso la forma è perfetta.
Ma vi sfido a trovare un significato
che passi dalla cruna dell’ago.

Credo mi resti solo
l’effetto palazzesco, il gioco
della torre di Babele, di parole
come nuvole che corrono da sole
e destrutturano il linguaggio
all’osso, come una filastrocca
dalla rima vacua, barocca
di cui però sento l’orrore
e l’odore forte del niente.

Come sempre, vi è la tendenza
all’assoluta assenza di trasparenza
perfino con sé stessi, e ci s’inerpica incerti
inciampando di certo
su irte vie sintàgmiche impossibili
da risalire; e così le chine restano
inchinate alla tecnica della retorica.
È dichiarata la fine
di una semantica prevalente
quasi come fosse un regime.

PS: per caso qualcuno è cascato
nel tranello iniziale, o nel caso?
Perché qui la forma non c’è.
Oppure sì?…
(IV)

Ho speso tutta la mia vita ad ordinare il mondo
secondo misura, numero e peso.
E la mia lingua scivola lieve
lungo il regolo della lingua:
non si sente una sillaba, o una battuta
al di là del metro, e il tempo è sospeso
però mai sbilenco, al di là del vetro
di questa finestra sbarrata
da cui attonito osservo
l’anima spianata della vita
da cui ho rimosso il sublime
e ogni minima collina che ondula
la terra tremula del cuore.

La livella è in perfetto equilibrio
precario, come l’esercizio eroico del controllo
a cui tende ogni mio sforzo, sino allo strenuo,
fino al limite estremo della follia
di chi non sa di essere solo,
senza più nessuno che lo ascolti
o che si ricordi, almeno una volta
di andare là dentro per portarlo via
dalla prigione ove si è rinchiuso,
per fargli respirare ancora
l’aria di un mondo confuso
ma incommensurabile
di bellezza e atrocità.

(V)
La mia invidia
è per il loro linguaggio.

Il fruscio delle foglie
dei rami strascicati dal vento
è quella voce
che puoi sempre ascoltare
e che sembra portare
il cielo
più vicino a te.

Spesso hanno il tono dell’urlo,
dell’invettiva polemica o della denuncia,
del monito solenne, dell’avvertimento.
Altre volte, le piante
mormorano basse
la facile ironia
su chi gli sta vicino: giganteschi tralicci
immobili e silenziosi
come goffe icone
della modernità.

Nei loro fili corrono
in miliardi,
in una folle frenesia
e un Dio ferroso
regge le loro esistenze, mosse solamente
da Leggi sicure
da meccanismi dogmatici

mentre io, goccia d’acqua
di lago stagnante, divento
Motore Immobile
del mio microcosmo, e mi fermo a raccogliere
le lacrime dei salici che crescono
sulle sponde dell’anima.

(VI)
Di solito si parla con le parole
ma oggi parliamo delle parole.
Il mondo supera le parole:
la vita travolge il linguaggio formale.

E poi, quanta gente spreca parole,
o semplicemente le usa male!
Bisognerebbe di nuovo
imparare a guardare
gli occhi di chi
ci parla dinanzi; bisogna imparare
ad avere pazienza, ed ascoltare
cosa dice il silenzio.
Sono lì che risiedono
le parole più vere, e che spesso faticano
a venire fuori.

Per non parlare di quella volta,
quando ti vidi per la prima volta:
rimasi davvero senza parole,
come un bambino alla luce del sole
che non ha ancora
imparato a parlare.

Per fortuna l’amore
supera ogni lingua e parola:
arriva diritto, da cuore a cuore
e tu resti zitto,
col tuo nodo alla gola.

(VII)
Perdere
il filo del discorso
il senso del linguaggio
il motivo
per dire anche una parola

ed ascoltare
il riflusso del silenzio,
un gorgoglio lontano
come il rumore di fondo
del letto di un fiume.

Ora ho dimenticato
dove io sono
che io sono
perché ho galleggiato a lungo
sopra la mia entità
mi ritrovo naufrago
in una dimensione remota
senza memoria
senza tempo
senza volontà
senza la necessità di chiedermi
se sono libero.