mistiche Paternò Giacomo

Mistiche

 

Tutte le mistiche che ho conosciuto
mi chiedono questo:
di uscire con l’anima
per rientrare in me stesso

di fuggire dal mondo
per cercare il cielo
di scendere nel profondo
per rialzarmi davvero.

Tutte le vie che ho percorso
hanno un bivio alla fine;
tutte le terre che ho battuto
hanno segnato il confine

sono deserti, infiniti silenzi
aridità di cuori
lunghe poste di rosari,
solitari furori.

Qual è il senso dell’ascesi,
dello sforzo dell’uomo
se il suo cuore resta pietra
e rifiuta il perdono…

…se il suo viaggio è senza senso
o la sua meta solo un miraggio;
se dopo tutta la fatica che ha fatto,
neanche per il sogno ha coraggio?

C’è chi dice che basta un istante
di stasi perfetta
per essere goccia nel mare

basta all’uomo parlare con l’uomo
per sentire la Vita pulsare,
per uscire
dal buio incubo dell’odio.

L’essenza è microcosmo, il Dio l’Infinitesimale.
Fuori dall’anima, c’è il nulla.

Se questo mondo è fatto a scale
e c’è chi scende e c’è chi sale
tra la terra e quel cielo,
allora liberaci dal male;

Giovanni dimmi come hai fatto
ad arrivare lassù in cima
Teresa cosa custodisce
il mio castello interiore

in questo mondo deteriore
siamo anime vaganti
come mine inesplose
pronte a brillare nella notte

che c’è, qui, e da cui non si fa più ritorno,
da qui…

…fuori dall’anima nulla: fuori dall’anima,
c’è il nulla.

Mi dimeno tra diritti e doveri
senza sapere perché
e cammino in lungo e in largo
senza sapere dov’è

la posizione del mio Io
la mia méta e Dio
il mio approdo tra le dune
e le alterne fortune.

E il poeta, lungo questo esodo
mi è sembrato Mosè
mi ha tratto in salvo dalla Legge
mi ha riportato in me

ha separato il mare con penna
mi ha condotto al di là
tra fiumi inutili di parole,
mi ha ridato la libertà

con lui ho scoperto una terza via
quella della poesia
su quella strada ho incontrato l’angelo
della giusta follia.

aspettando Godot Paternò Giacomo

Aspettando Godot

(I)

Solo pochi applausi si levano
all’inutilità dell’esserci.
Nessuno più coglie
il dramma dell’esistenza
chiedendosi perché
le cose nascono e si corrompono,
e la realtà non si sia fermata
nell’istantanea del Giardino.
Ma l’interrogazione è radicale,
come la nostra libertà:
il moto è il nostro destino
e non capire da dove
è scivolata la biglia
è condannarsi per sempre
all’attesa di Godot.

(II)
L’irruzione sulla scena del Divino
per qualcuno rimane solo un mito;
e che si nasconda dietro le quinte della storia
è un assurdo che io non oso immaginare.

Molti scelgono la rimozione dell’arcano
la rinuncia a ciò che non si è capito,
ed evapora lo Spirito infinito
come lo zolfo ed il carbonio dal vulcano.

Ci si arrende così alla materia
che si presenta a noi caotica ed inerte,
e restiamo lì a braccia conserte
dicendo agli altri che l’anima non è seria.

Il palcoscenico del mondo sembra vuoto
l’uomo è piccolo, e non fa la sua presenza;
o si trasforma, in una caricatura
di sé, della ragione e della natura.

(III)
Mi sai dire quando
sei diventato sapiente
mi sai dire quando
la tua vita incipiente
ha innalzato una stele
tra natura e cultura
mi sai dire com’è
la tua vita futura

mi sai dire quando
hai eretto te stesso
a nuovo arbitro
del bene morale, mi spieghi perché
non sei più solo abile
a lavorare quattro piccoli sassi

mi spieghi quando
ti sei convinto che il mondo
è un laboratorio
per i tuoi esperimenti

mi spieghi il fondo
della tua conoscenza
e se almeno sai
di essere Uomo.

(IV)

Millenaria è diventata ormai l’attesa
del prodotto finale dell’evoluzione.
Certo, c’è chi dice che un fine non esista
ed intanto esclude la Rivelazione.

Ma mi aspettavo quantomeno la comparsa
di una coscienza, o di un’etica più umana;
ed invece il soggetto è una parvenza
una farsa, una maschera, o al più una comparsa.
“People are bloody ignorant apes”.
“There is no lack of void.”

 

Paolo e Francesca di Giacomo Paternò

 

 

A Paolo e Francesca

(I)
Dobbiamo avere il coraggio
di collocare tra i santi
Paolo e Francesca.
Ma credere alla catarsi
dei sentimenti
è pura ingenuità: l’Amore è tentazione radicale
nella vita dell’anima,
autentica perdizione di sé
e dannazione eterna.
Lo spettro di Thanatos
è la faccia abituale
che si scorge allo specchio
di chi è pronto a bruciarsi,
e dimenarsi tra i venti
del Cielo degli Amanti.

(II)
E infatti avevi ragione, quel
giorno che mi chiedesti
numi sui dogmi. Mi rinchiusi
dietro alle forme, col terrore
d’uscire. La tua matita si svegliò
sotto una pioggia maledetta, ove
regola e qualità mai non l’è nova;
la mia invece poggiò ipocrita
su di un foglio, per ciarlare
d’un divorzio geometrico,
sul caso e le intenzioni
con fare processuale. M’interrogavi
su cosa vale di più fra il cuore
ed un contratto, e cosa c’entra Dio
in tutto questo.
Presto saresti partita alla ricerca-
-se non alla caccia- di Cerbero e Ciacco,
ed il mio cuore era fiacco, perché sprovvisto
di frecce nel sacco. Io da lontano
vidi qualcosa, ma tu dichiarasti
la tua ignoranza, su rette parallele
e quant’altro. Ti sfugge quindi
il punto all’infinito dove s’incontrano,
per sempre.

 

(III)

Trascinati dal vento, come sabbia dal mare
come due naviganti, che non voglion morire

come due foglie, sopra le nubi
o due falene, in volo di notte

siamo sbattuti come rami d’autunno,
siamo due pugili
in piedi dopo tanti pugni

siamo dei matti, finiti in gabbia
siamo due macchine in mezzo alla nebbia.
Ma non ci perdiamo,
la nostra luce è più forte
la nostra luce è più chiara
di ogni cattiva sorte

e il nostro amore rimane più caldo
di tutto l’Inferno che ci gira attorno
l’unica colpa che io mi ricordo
è la felicità
che in vita ci ha consumato,
circondati dall’invidia di tanti piccoli diavoli
che ci rendevano soli
al centro dell’universo.

E adesso siam persi
tra le nostre fiamme infinte
senza la presunzione di angeli
portatori di luce, di luce altrui.

(IV)
Forse credevi che Minosse
fosse un giudice più arguto
dell’Etterno Fattore?
Pensavi che la distanza tra due punti
si potesse poi colmare
con l’assenza di un mio bacio?
Beh, hai fatto un bell’errore.
Ed anch’io, che per i miei sogni brucio;
sembra questa esser la mia sorte.
Amor, che tutto ha amato, amor non trova;
ma di te prese un piacer sì forte
che, come vedi, ancor l’anima mia cova.

il vaso di Pandora di Giacomo Paternò

 

 

 

Il vaso di Pandora

(I)

Donna, attenta a ciò che fai
perché Prometeo è già incatenato
la ragione è già al limite,
il momento è calcolato.

La poesia
e l’arte del restauro
si dividono la piazza

ci educhiamo
ad una rivoluzione continua
ad una rigida disciplina
all’etica della responsabilità

accettiamo di contenere l’essere
come un bicchiere mezzo pieno.

Diventa l’amore
un vaso di Pandora,
un tempo trattenuto.

(II)
Una coltre di giorni
piovuti dal cielo
rischia di coprirmi, di coprirmi di freddo

l’abitudine è un manto
che ti porti addosso
come un monaco curvo
con il suo saio.

Ma il tempo è ritmo
e non liturgia,
è il suono di un diapason
in cerca d’una armonia.

Più nessuno ora parla
con gli uccelli o col cielo,
non si ode una laude
per la vita o la morte.

Francesco, puoi perdonarci
se abbiamo perso il sorriso?
La Gioia dei figli
pare abbiamo smarrito…
La nostra musica sembra
un bronzo che risuona,
o un cembalo che tintinna.

(III)
Ho dimenticato
tutti i campi di grano
su cui ho camminato

le fughe in Provenza
i vicoli acciottolati
di sogni nascosti
e mai raccontati

ho lasciato cadere
tutte le occasioni
i fiori raccolti
e le fugaci passioni

vivo, con un cielo limpido
ed il sole allo zenit,
senza rondini e nuvole
che girano intorno

voglio sperare
che questo nuovo realismo
non sia solo cinismo, e la vita,
che avanza veloce
non mi sorpassi mai.

È necessario
provare a rinascere
dalla cenere dei giorni
e vedere ancora
spiragli di luce
tra queste forme ordinate

ora che abbiamo
riposto i furori
nei bauli antichi
della gioventù

ora che abbiamo
il timore di un tempo
che non torna più

dobbiamo passare
dal fare creativo
all’arte del bottegaio,

dobbiamo conservare
un cuore prezioso
sino alla vecchiaia.

(IV)
Languido scivola il ricordo
di te, che quasi la corrente
con fare indifferente
porta via il tuo nome da me

lì, laddove io credevo
tu mi avessi preceduto
insieme al cuore tramortito
dal mio grande ardore per te

ma questa canzonetta popolare
mi fa quasi addormentare
e non rende conto del dramma che c’è

e allora basta. Rompiamo la rima
inutile come un giorno che declina
senza di te. Facciamolo, se fosse possibile,
d’interrompere la ‘consecutio temporum’,
e di mettere un po’ di punteggiatura
su questa vita fatta di parole lente
che derivano verso una cantilena
che t’incatena la lingua e la mente.

Dobbiamo essere schietti, prosaici.
Noi siamo lontani. Ma
il tempo, lo spazio e la volontà
si ostinano a non separarci,
il sogno rimane rigido,
e non si piega agli eventi di un mondo
duro come la pietra,
come il dato di fatto.

Tu sei una specie di prisma,
che ricompone i colori dal nulla
e m’investi d’una luce accecante, improvvisa,
inattesa, che rende indistinta la varietà
ma dona unità al molteplice.

A questo punto, cosa può esserci di più semplice
dell’abbandono?
Forse, affidare al vento il proprio tormento,
o al mare un messaggio nella bottiglia
ed aspettare che la bufera passi per quel poco che dura,
o che la natura faccia il suo corso
e ti copra con la forza del suo canto
oppure che la vita o il destino che siano
mi sorpassino con il disincanto,
sbriciolando questo momento
e tutto ciò che siamo
nella necessità del pane quotidiano.

Mi domando spesso dove sei,
a cosa pensi, se pensi a me
alla caponatina di tua zia
o a quella via che avremmo dovuto
prendere insieme; e se hai voglia di parlare
o di chiedermi di tacere.
Ancora? No, non accadrà.
Già gridano vendetta
le troppe parole non dette,
cadute nel pozzo profondo
del silenzio, della paura, e dell’incompiuto.
Parlerò di un futuro in continuo ritorno:
vorrei che tu fossi ad un tempo
la mia Circe e la mia Nausicaa,
la mia musica senza tempo
che suona in eterno dentro di me,
e che m’impedisce di fare ritorno.

(V)
E se non fosse possibile
raschiare il tuo respiro
dai miei pensieri?
Partire, dimenticare
rischiare di morire
d’amore
era il segreto
del nostro volo:
chiudere il cielo
dei tuoi occhi, scoprire
nuovi mondi
e divenire essenza divina.
Per questo eri nata,
per questo io vivevo.

(VI)
Oggi un demone
mi è entrato nel cuore.
Nuovi occhi
muovono le mie viscere.
Già trema la mano
a scrivere di lei, che
voltatasi, mi preparava il caffè:
veramente sublime.
Il suo lacerante sorriso
forse mi trascinerà
al gesto eroico-
ma sempre αἰδώς, come Prometeo-
perché su di me
è grave lo sguardo
la sentenza che decreta
dall’Olimpo la mia Dea.

(VII)
Elemento d’aria
ti sollievi lieve
come una sottana di seta
alla prima brezza d’estate.
Ti colori di una passione
sotterranea: fiume di lava
che scorri nascosto
e fremi
per venire alla luce

il vigore del fuoco è in te
e l’origine celeste è svelata,
una maschera angelica
dai tuoi finti occhi distratti.
Nell’afa di questa terra
a volte capita in luglio
d’incontrare
una ninfa di Vulcano.
(VIII)
E d’altro canto, le bocche degli inferi
trattengono a stento
il fuoco che sale
dal cuore del mondo.

Dal profondo è minato
il fragile equilibrio sociale
che ne rimane delle comunità

ogni sasso, che si raffredda nella sciara
è una primizia nascosta, e la gente ignara
osserva solo le ginestre
che spuntano provvisorie

illusorie, le nostre vite si abbarbicano
nella Valle del Bove
sul tutto e sul niente, in ogni dove
e in ogni lembo di terra che sempre
si muove.

Per adesso, Efesto manifesta
una pazienza inattesa
nel forgiare i suoi arnesi

rimane lontano il rumore
del ferrobattuto,
del martello divino sul metallo

solo qualche tremore
e un po’ di cenere sparsa
sulla terra intorno

vomiterà, alla fine, il Vulcano,
una colata di lava senza ritorno
senza rinascita

nel momento che nessuno conosce,
che nessuno s’aspetta, o che qualcuno predice
per metterti fretta nel passare all’azione.

(IX)
Il fiume corre veloce alla foce-
-diceva Rodari, con verso verace.

Ma la pioggia è caduta abbondante,
il livello dell’acqua si alza
e il rischio rimane costante
per gli argini antichi, che fanno fatica
a contenere il nuovo che avanza.

Non basta il margine alla scrittura,
non basta la forma alla natura
illimite, imprevedibile, irregolare.

(X)
Dov’è finito il lungomare
su cui dovevamo passeggiare?
Già l’onda si ritrae dal bagnasciuga,
e stavolta credo che non tornerà.
Anche la sabbia
non scotta più sotto i nostri piedi,
e il fiume è freddo
dalle tue parti.

Il verso del gabbiano ci riporta
al tramonto dove ci siamo lasciati
mani nelle mani, leggeri
invisibili
quasi non ci fossimo mai incontrati.

 

Falcone Impastato

 

 

 

 

A Giovanni Falcone (per i miei alunni)

 

Vent’anni sono volati via
come la strada nel cielo,
quel cielo di spugna
intriso della puzza acre
del tritolo, e gonfio
di lacrime e rabbia
per l’ipocrisia
di quei sepolcri imbiancati
di uno Stato defunto.

Voi non c’eravate
quando io avevo la vostra età,
e per questo non potete capire
l’aria pesante di quei giorni,
i discorsi incerti tra di noi
e i silenzi
sepolti di vergogna
degli adulti.
Noi siamo quella generazione
che ha imparato dal martirio
senza parole
solo col gesto semplice di un genitore
che indica le riprese del telegiornale.

Ora che il tempo SEMBRA passato,
qui dove l’aria APPARE più fina,
voi avete il dovere
di prendere per mano quel Paese
che ci è stato consegnato
come un testimone
a costo della vita,
col prezzo di un amore
che apparve quasi immotivato.
Sappiate ragazzi
che un giorno di vent’anni fa
eravamo tutti palermitani,
eravamo lì a piangere la paura
che ci avessero rubato il cielo.
Profeticamente sotto la Croce,
stava il discepolo che Egli amava.
Era il più giovane. Si chiamava Giovanni. 19/05/2012

 

A Peppino Impastato

Io sono nato dalla tua morte.
La luce di quel ‘78
veniva dalla notte dello Stato.

Avrei preferito conoscerti
e incontrare i fantastici mondi
che tu immaginavi- così diversi dallo squallore
che ti circondava in una vita isolata.

Ma tu hai saputo
farci su una bella risata,
e rendere piccina piccina
quella “montagna” che ci soffocava.

La radio dava forza alla tua voce,
e così il giullare e il Padrone
si scambiarono di ruolo.

Ma il fetore
e le mosche che vi ronzano attorno
sono ancora forti
trent’anni dopo.

E se un giorno-
-ancora un giorno di maggio-
esplode la verità,
essa risplende per sempre.

Il fango e lo sterco
l’ignoranza e la paura
non possono sporcare
il sangue di

 

 

 

 

A Giovanni Falcone (per i miei alunni)

 

Vent’anni sono volati via
come la strada nel cielo,
quel cielo di spugna
intriso della puzza acre
del tritolo, e gonfio
di lacrime e rabbia
per l’ipocrisia
di quei sepolcri imbiancati
di uno Stato defunto.

Voi non c’eravate
quando io avevo la vostra età,
e per questo non potete capire
l’aria pesante di quei giorni,
i discorsi incerti tra di noi
e i silenzi
sepolti di vergogna
degli adulti.
Noi siamo quella generazione
che ha imparato dal martirio
senza parole
solo col gesto semplice di un genitore
che indica le riprese del telegiornale.

Ora che il tempo SEMBRA passato,
qui dove l’aria APPARE più fina,
voi avete il dovere
di prendere per mano quel Paese
che ci è stato consegnato
come un testimone
a costo della vita,
col prezzo di un amore
che apparve quasi immotivato.
Sappiate ragazzi
che un giorno di vent’anni fa
eravamo tutti palermitani,
eravamo lì a piangere la paura
che ci avessero rubato il cielo.
Profeticamente sotto la Croce,
stava il discepolo che Egli amava.
Era il più giovane. Si chiamava Giovanni. 19/05/2012

 

A Peppino Impastato

Io sono nato dalla tua morte.
La luce di quel ‘78
veniva dalla notte dello Stato.

Avrei preferito conoscerti
e incontrare i fantastici mondi
che tu immaginavi- così diversi dallo squallore
che ti circondava in una vita isolata.

Ma tu hai saputo
farci su una bella risata,
e rendere piccina piccina
quella “montagna” che ci soffocava.

La radio dava forza alla tua voce,
e così il giullare e il Padrone
si scambiarono di ruolo.

Ma il fetore
e le mosche che vi ronzano attorno
sono ancora forti
trent’anni dopo.

E se un giorno-
-ancora un giorno di maggio-
esplode la verità,
essa risplende per sempre.

Il fango e lo sterco
l’ignoranza e la paura
non possono sporcare
il sangue di un giusto.

Io adesso vivo
della tua vita, della rabbia
per la TUA Sicilia.
08/05/2008

un giusto.

Io adesso vivo
della tua vita, della rabbia
per la TUA Sicilia.
08/05/2008

 

Giacomo Paternò

mi chiamo Davide di Giacomo Paternò

 

Mi chiamo Davide (ma non lo sapevo!)

 

Mi chiamo Davide. Una volta
un amico mi disse: tu puoi
essere re, nella tua vita futura.

Poi mi trovai a combattere
nella terra dei Giganti.
Come un incubo fantasy,
ecco spuntarmi davanti
mostri di varia natura:
Colossi bancari,
Draghi
Stregoni finanziari
che fanno bolle di sapone
speculative,
uomini senza terra
-multinazionali-,
buffoni volanti
e ciarlatani colorati
che invadono le corti
televisive.

Contro tutti questi
io possiedo solo
la mia fede in Dio,
e tanti dardi di rabbia.

Il futuro è un’ipotesi a cui
non posso nemmeno pensare.
Devo solo raggiungere
un orizzonte a tempo
determinato, o se va bene,
a tutele crescenti.

Lascio ad altri il conflitto,
la speranza concreta di vincere.

 

 

 

 

Mi chiamo Davide (e qui lo sapevo…)

 

Io mi aggrappo al mio nome,
mi limito a nascere
e a prendere la vita
così come viene.

Attendo con ansia
l’unzione e la luce,
la casa, il pascolo, il mondo
e il suo significato.

Mi resta il mio,
che è quello di essere amato.
Mi chiamo Davide, e forse da grande
suonerò arpa e cetra,
parlerò con Dio
o farò politica.

O magari tutt’e tre…

Rovereto,
30/12/2015

la seta l’oro il mare di Giacomo Paternò

 

La seta, l’oro e il mare

(I)
Ad un mercante
da mille e una notte
chiedo la seta, l’oro e il mare.

Mi dice: “non le ho, ma ti regalo la luna”
e di essa, non so cosa fare: aspetto che si svuoti
e che io diventi sabbia
e tu, possa bagnarmi
salendo.

Non trovo il mio senno
disperso nella nebbia
ma cerco sulle rive
una disperata fortuna.
Riesco a scorgerla
nel tortuoso torrente
ma ecco che fugge via,
via con la corrente.

Torno a casa
ed già sabato;
oggi non riposo,
avrei una festa
ma non ho ancora la stoffa
per un vestito nuovo
così, oltre al danno,
arriverà la beffa.

Non mi rimane
che vegliare, ed attendere
che ritorni piena
per poi restituirla
a quel ladro d’oriente:
io non chiedo sogni in affitto
ma solo la chiave del suo scrigno
per non restare matto.

(II)
Qual è il prezzo di tutto l’oro che porti
e che scommetti sicura
nei tuoi occhi di esca?
Tu conosci la mia fame, il mio desiderio di pane
in mezzo a questo campo di grano
che aspetta solo la mietitura,
che io passi la mano
prima che venga la sera.
Verrò quindi a raccogliere l’oro fluente
che scende fino a valle
e poi t’incontrerò
all’altezza dei fianchi, e lì
perderai il fiato.

Non guardarmi così. Non mi sorridere,
perché la bussola in burrasca
a volte si perde, e se un fulmine
improvvisamente ti cade vicino,
ti abbaglia potente.
Non essere impertinente
perché la tua curiosità
si è appena distratta
alle soglie del mio cuore.
Ma soprattutto, non ti fermare
se vorrai baciarmi,
non costringermi ad inseguirti.

(III)
Un primo sole
cade su questo lungomare.
E oggi sono io, invece
a riversarmi nel vento
e vincere il tempo
cercando profumi remoti,
sguardi di cieli
lontani suoni notturni.
Scendo in spiaggia,
aggiungo sale al sale.
Poi ti ritrovo: ecco la mia mano
attraversare selve rosse di sabbia,
il mio dito intingere
sul miele più dolce.
Io ti vedo, ti stringo
come fa il mare
con le sporgenti rocce del Capo:
è ancora inquieto,
fragoroso
in questi incerti
tramonti di primavera.

 

Prima che venga sera,
io ti saluto, e prometto
che tornerò qui a cercarti
per amarti, come in un sogno,
con i miei occhi chiusi.
In un sogno,
con i miei occhi chiusi.
(IV)

Ma ora è l’ora di dimenticare
il riflesso del sole dentro il mare
e il colore limpido della speranza
che dal fondo risale.
È giunta la sera: faremo un grande falò
di tutta la musica, la filosofia:
sarà forse l’ultima poesia
vissuta con il calore che ne rimane
perché pizzica la salsedine,
incita la mano a scivolare
sullo specchio di acqua e seta,
a tuffarsi in un anfratto di luna,
in un’altra vita.

Ma è il presente che io preferisco,
un’avventura che ancora non conosco
un incontro non ancora avvenuto
cioè quello che in fondo è successo con te.

 

tempo ordinario

Tempo ordinario

(I)
Al mattino
si condensa la speranza
come rugiada.

I sogni sono freschi
e i prati vergini.
La luce si fa spazio nel tempo,
lentamente

e le gazzelle escono
nelle steppe asfaltate
ancora incerte, ma bellissime
e già pronte per la caccia
o la fuga.

Questo è anche il momento
per dire le cose migliori,
se ci ricordiamo come si fa.

Al mattino, perfino Aleppo-
-per un istante brevissimo,
polveroso- pensa ad un futuro
al di là delle rovine
delle case e degli ospedali,
degli uomini, dei bambini e degli déi
morti insanguinati.

(II)
A mezzogiorno
il sole cade a picco
e forse la calura dà alla testa

non c’è pausa, né cibo né acqua
da bere, e la sabbia del deserto
può tagliarci la gola.

A Mosul
siamo alla resa dei conti,
siamo pronti a rispondere
alla chiamata delle armi,
a diventare tutti santi,
a morire
senza pane tra i denti.

Il sole picchia duro.
Non c’è un’ombra, un riparo
presso cui sostare, per gustare un attimo
di vita fugace.

E credere, cosa credere, come credere
non ha più alcuna importanza:
sarà la nostra penitenza
quella di essere scudi umani
all’inumano.

Ma qual è la colpa?

(III)
Al porto di Sirte
scende la sera,
e in un giorno normale
si potrebbero vedere
le luci delle lampare
galleggiare lì, nel mare,
serenamente.

Ma questo tempo non è ordinario,
e qui batte una bandiera
più nera di quella dei corsari.

Oggi si vedono solo vecchi pescherecci
che prendono il largo
nella notte
e che trasportano carne da macello
verso l’ignoto,
forse verso la morte.

 

Giacomo Paternò