il vaso di Pandora di Giacomo Paternò

 

 

 

Il vaso di Pandora

(I)

Donna, attenta a ciò che fai
perché Prometeo è già incatenato
la ragione è già al limite,
il momento è calcolato.

La poesia
e l’arte del restauro
si dividono la piazza

ci educhiamo
ad una rivoluzione continua
ad una rigida disciplina
all’etica della responsabilità

accettiamo di contenere l’essere
come un bicchiere mezzo pieno.

Diventa l’amore
un vaso di Pandora,
un tempo trattenuto.

(II)
Una coltre di giorni
piovuti dal cielo
rischia di coprirmi, di coprirmi di freddo

l’abitudine è un manto
che ti porti addosso
come un monaco curvo
con il suo saio.

Ma il tempo è ritmo
e non liturgia,
è il suono di un diapason
in cerca d’una armonia.

Più nessuno ora parla
con gli uccelli o col cielo,
non si ode una laude
per la vita o la morte.

Francesco, puoi perdonarci
se abbiamo perso il sorriso?
La Gioia dei figli
pare abbiamo smarrito…
La nostra musica sembra
un bronzo che risuona,
o un cembalo che tintinna.

(III)
Ho dimenticato
tutti i campi di grano
su cui ho camminato

le fughe in Provenza
i vicoli acciottolati
di sogni nascosti
e mai raccontati

ho lasciato cadere
tutte le occasioni
i fiori raccolti
e le fugaci passioni

vivo, con un cielo limpido
ed il sole allo zenit,
senza rondini e nuvole
che girano intorno

voglio sperare
che questo nuovo realismo
non sia solo cinismo, e la vita,
che avanza veloce
non mi sorpassi mai.

È necessario
provare a rinascere
dalla cenere dei giorni
e vedere ancora
spiragli di luce
tra queste forme ordinate

ora che abbiamo
riposto i furori
nei bauli antichi
della gioventù

ora che abbiamo
il timore di un tempo
che non torna più

dobbiamo passare
dal fare creativo
all’arte del bottegaio,

dobbiamo conservare
un cuore prezioso
sino alla vecchiaia.

(IV)
Languido scivola il ricordo
di te, che quasi la corrente
con fare indifferente
porta via il tuo nome da me

lì, laddove io credevo
tu mi avessi preceduto
insieme al cuore tramortito
dal mio grande ardore per te

ma questa canzonetta popolare
mi fa quasi addormentare
e non rende conto del dramma che c’è

e allora basta. Rompiamo la rima
inutile come un giorno che declina
senza di te. Facciamolo, se fosse possibile,
d’interrompere la ‘consecutio temporum’,
e di mettere un po’ di punteggiatura
su questa vita fatta di parole lente
che derivano verso una cantilena
che t’incatena la lingua e la mente.

Dobbiamo essere schietti, prosaici.
Noi siamo lontani. Ma
il tempo, lo spazio e la volontà
si ostinano a non separarci,
il sogno rimane rigido,
e non si piega agli eventi di un mondo
duro come la pietra,
come il dato di fatto.

Tu sei una specie di prisma,
che ricompone i colori dal nulla
e m’investi d’una luce accecante, improvvisa,
inattesa, che rende indistinta la varietà
ma dona unità al molteplice.

A questo punto, cosa può esserci di più semplice
dell’abbandono?
Forse, affidare al vento il proprio tormento,
o al mare un messaggio nella bottiglia
ed aspettare che la bufera passi per quel poco che dura,
o che la natura faccia il suo corso
e ti copra con la forza del suo canto
oppure che la vita o il destino che siano
mi sorpassino con il disincanto,
sbriciolando questo momento
e tutto ciò che siamo
nella necessità del pane quotidiano.

Mi domando spesso dove sei,
a cosa pensi, se pensi a me
alla caponatina di tua zia
o a quella via che avremmo dovuto
prendere insieme; e se hai voglia di parlare
o di chiedermi di tacere.
Ancora? No, non accadrà.
Già gridano vendetta
le troppe parole non dette,
cadute nel pozzo profondo
del silenzio, della paura, e dell’incompiuto.
Parlerò di un futuro in continuo ritorno:
vorrei che tu fossi ad un tempo
la mia Circe e la mia Nausicaa,
la mia musica senza tempo
che suona in eterno dentro di me,
e che m’impedisce di fare ritorno.

(V)
E se non fosse possibile
raschiare il tuo respiro
dai miei pensieri?
Partire, dimenticare
rischiare di morire
d’amore
era il segreto
del nostro volo:
chiudere il cielo
dei tuoi occhi, scoprire
nuovi mondi
e divenire essenza divina.
Per questo eri nata,
per questo io vivevo.

(VI)
Oggi un demone
mi è entrato nel cuore.
Nuovi occhi
muovono le mie viscere.
Già trema la mano
a scrivere di lei, che
voltatasi, mi preparava il caffè:
veramente sublime.
Il suo lacerante sorriso
forse mi trascinerà
al gesto eroico-
ma sempre αἰδώς, come Prometeo-
perché su di me
è grave lo sguardo
la sentenza che decreta
dall’Olimpo la mia Dea.

(VII)
Elemento d’aria
ti sollievi lieve
come una sottana di seta
alla prima brezza d’estate.
Ti colori di una passione
sotterranea: fiume di lava
che scorri nascosto
e fremi
per venire alla luce

il vigore del fuoco è in te
e l’origine celeste è svelata,
una maschera angelica
dai tuoi finti occhi distratti.
Nell’afa di questa terra
a volte capita in luglio
d’incontrare
una ninfa di Vulcano.
(VIII)
E d’altro canto, le bocche degli inferi
trattengono a stento
il fuoco che sale
dal cuore del mondo.

Dal profondo è minato
il fragile equilibrio sociale
che ne rimane delle comunità

ogni sasso, che si raffredda nella sciara
è una primizia nascosta, e la gente ignara
osserva solo le ginestre
che spuntano provvisorie

illusorie, le nostre vite si abbarbicano
nella Valle del Bove
sul tutto e sul niente, in ogni dove
e in ogni lembo di terra che sempre
si muove.

Per adesso, Efesto manifesta
una pazienza inattesa
nel forgiare i suoi arnesi

rimane lontano il rumore
del ferrobattuto,
del martello divino sul metallo

solo qualche tremore
e un po’ di cenere sparsa
sulla terra intorno

vomiterà, alla fine, il Vulcano,
una colata di lava senza ritorno
senza rinascita

nel momento che nessuno conosce,
che nessuno s’aspetta, o che qualcuno predice
per metterti fretta nel passare all’azione.

(IX)
Il fiume corre veloce alla foce-
-diceva Rodari, con verso verace.

Ma la pioggia è caduta abbondante,
il livello dell’acqua si alza
e il rischio rimane costante
per gli argini antichi, che fanno fatica
a contenere il nuovo che avanza.

Non basta il margine alla scrittura,
non basta la forma alla natura
illimite, imprevedibile, irregolare.

(X)
Dov’è finito il lungomare
su cui dovevamo passeggiare?
Già l’onda si ritrae dal bagnasciuga,
e stavolta credo che non tornerà.
Anche la sabbia
non scotta più sotto i nostri piedi,
e il fiume è freddo
dalle tue parti.

Il verso del gabbiano ci riporta
al tramonto dove ci siamo lasciati
mani nelle mani, leggeri
invisibili
quasi non ci fossimo mai incontrati.

 

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Poeta, artista di Pittura Fonetica, attore regista della Compagnia Fonetica. Sostiene l'Europa unita fino agli Urali e in un mediterraneo di Ulisse, non fossa comune.